Diritto penale

Il diritto penale è il complesso delle norme che descrivono i reati e le conseguenze (pene) da essi derivanti. È un ramo dell’ordinamento giuridico e precisamente del diritto pubblico interno. Negli ultimi anni si è sviluppato anche un diritto penale internazionale che punisce i crimini contro l’umanità (ad esempio genocidio), istituendosi anche un Tribunale penale internazionale con sede a L’Aia nei Paesi Bassi.
Negli ultimi tempi sono state apportate alcune rettifiche in sede di conversione al testo del d.l. 92/2014  in tema di custodia. Erano apparse, infatti, incongrue, ai primi commentatori ed agli operatori giudiziari, le nuove disposizioni in materia di custodia cautelare: e tra esse in primo luogo la modifica dell’art. 275 comma 2-bis c.p.p. che è stato, praticamente, riscritto dal Parlamento al momento della conversione in legge del provvedimento governativo. Nel frattempo, è bene dirlo, parecchie centinaia di imputati hanno sicuramente fruito della disposizione d’urgenza beneficiando della remissione in libertà o degli arresti domiciliari, mentre altri, dopo l’entrata in vigore della legge 117/2014, ne resteranno esclusi, pur trovandosi nelle medesima condizione. Come detto la legge 117/2014 interviene in modo significativo sulla disciplina della custodia cautelare che era stata coniata dal d.l. 92/2014 ed, in particolare, sul testo dell’art. 275, comma 2-bis, c.p.p. che fissa, com’è noto, i «criteri di scelta delle misure» coercitive di cui il giudice deve tener conto al momento dell’applicazione della custodia.
Il decreto legge aveva introdotto al riguardo una norma particolarmente rigida che instaurava una vera e propria presunzione di congruità delle misure diverse dalla custodia in carcere per tutti i casi in cui «il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva da eseguire non sarà superiore a tre anni». Il divieto operava, come era stato immediatamente rilevato, in tutti i casi a prescindere dalla tipologia del reato per cui si stava procedendo e dalle condizioni personali dell’imputato/indagato. Inoltre il riferimento alla «pena detentiva da eseguire» aveva fatto sorgere nella giurisprudenza di merito un acceso dibattimento sul significato di tale locuzione, intendendosi, da parte di alcuni, che occorreva far riferimento alla pena irrogata in sentenza e, da parte di altri, alla pena ancora da scontare, tenuto conto della custodia cautelare sofferta in altre fasi o gradi del giudizio. Così, ad esempio, in caso di condanna in primo grado a 4 anni se l’imputato fosse stato in coercizione carceraria da oltre un anno, secondo una tesi prevalente operava il divieto in questione, con conseguente attenuazione del regime in direzione degli arresti domiciliari e della remissione in libertà.
Nel caso del nuovo comma 2-bis la norma originaria è stata, per così dire, arginata nell’incipit e nella parte finale da una serie di fitte clausole di salvaguardia: «Salvo quanto previsto dal comma 3 e ferma restando l’applicabilità degli articoli 276, comma 1-ter, e 280, comma 3, non può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni.Tale disposizione non si applica nei procedimenti per i delitti di cui agli articoli 423-bis, 572, 612-bis e 624-bis del codice penale, nonché all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, e quando, rilevata l’inadeguatezza di ogni altra misura, gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell’articolo 284, comma 1, del presente codice».
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